Chiunque legga i Vangeli sa che Gesù ha vissuto una vita molto difficile. Nacque in una famiglia povera e queste umili origini lo portarono ad essere un comune lavoratore in una città irrilevante.
All’inizio del suo ministero, tuttavia, le sofferenze si intensificarono. La maggior parte degli studiosi della Bibbia concorda sul fatto che il primo atto del suo ministero terreno – il battesimo – prefiguri il suo estremo battesimo di sofferenza sulla croce. Subito dopo essere stato battezzato, si ritirò nel deserto della Giudea. Lì digiunò per quaranta giorni. Non riesco ad immaginare cosa significhi digiunare per quaranta giorni, soprattutto nel deserto.
In quel deserto, Satana gli si avvicinò: mise alla prova il Signore, indebolito nel fisico, accrescenddo la sua sofferenza. Questo confronto rappresentava un’altra prefigurazione dell’opposizione che Gesù avrebbe subito da Satana durante il suo ministero.
Il deserto era un’immagine del suo ministero terreno; gli ricordava perché era venuto e dove sarebbe terminato il suo ministero: rappresentava un luogo di sofferenza e di morte. Il suo tempo sulla terra non sarebbe stato caratterizzato da molte comodità. Una volta avvertì uno che voleva seguirlo che non aveva un posto fisso dove posare il capo (Luca 9:58), il che è calzante per un uomo che ha iniziato il suo ministero digiunando nel deserto.
In Marco, Gesù sente spesso la necessità di allontanarsi dalle comodità della civiltà. I luoghi dei suoi ritiri erano sia il deserto che il mare (1:12-13, 35, 45; 2:13). Si allontanava quando incontrava delle contestazioni o quando le folle volevano che facesse ciò che non era venuto a fare. Si recava in questi luoghi isolati da solo, a significare che la sua sarebbe stata una vita di sofferenza. Non era venuto per essere acclamato dagli uomini.
In Marco 3 succede una cosa interessante. Gesù si ritira ancora una volta verso il mare, ma questa volta non è da solo. Per la prima volta nel Vangelo, Marco aggiunge che si ritirò “con i suoi discepoli” (3:7). Questo accade subito dopo che alcuni uomini di potere avevano deciso di ucciderlo (3:6).
Sono certo che i discepoli non capirono cosa significasse quell’episodio. Non credevano ancora che Gesù sarebbe morto. Probabilmente si chiedevano perché non fosse rimasto nelle città, dove la gente veniva ad assistere ai suoi miracoli. Non avevano compreso l’idea che seguirlo avrebbe significato soffrire.
Ma pur nella loro ignoranza, erano un gruppo beato. Erano partecipi della sua sofferenza. Erano “con” lui mentre insegnava loro cosa significasse essere discepoli. Avevano già capito di avere la vita eterna in Lui, credendo in Lui per avere quella vita. Ora cominciavano a capire cosa avrebbe comportato seguire il suo esempio. Anche loro avrebbero conosciuto l’ostilità del mondo.
Lo stesso vale per i credenti di oggi. Quando crediamo, abbiamo la vita eterna e non potremo mai perderla. Ma poi il Re ci ordina di seguirlo. In sintonia con la sua esperienza, tale vita non è facile. I credenti che lo seguono saranno ricompensati nel mondo che verrà, ma anche in quello presente. Avranno il privilegio di essere simili a lui. Così come il mondo lo ha rigettato, lo stesso farà con il discepolo di Cristo.
Quanto è significativa la breve frase che Marco aggiunge in 3:7? Il Signore si ritirò verso il mare, ma lo fece “con i suoi discepoli”. Non sarebbe bello far parte di quel gruppo?
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Ken Yates (ThM, PhD, Dallas Theological Seminary) è l’editore del Journal of the Grace Evangelical Society e speaker regionale ed internazionale della GES. Il suo ultimo libro si intitola Hebrews: Partners with Christ.