Qualche anno fa ho avuto l’opportunità di tenere un corso di soteriologia (dottrina della salvezza) in Zambia. Durante una delle discussioni, ho scoperto che la definizione di peccatore data dagli studenti causava una certa confusione. La maggior parte di loro proveniva da una prospettiva arminiana, il che significa che credevano di perdere la salvezza se peccavano. Pertanto, secondo il loro giudizio, i peccatori erano destinati allo stagno di fuoco. Se un credente peccava, allora non era più un santo.
La definizione di peccatore degli zambiani non è particolarmente unica; il calvinismo spesso equipara il peccatore al non credente. Tuttavia, esso insegna che se qualcuno pecca, non è in realtà mai stato salvato (e quindi non può perdere la salvezza). In entrambi i casi, la conclusione è la stessa. Secondo entrambe le vedute, il termine peccatore è sinonimo di non credente. Questo crea un problema nella comprensione delle Scritture.
Ad esempio, quando il Signore mangiava con i pubblicani e i peccatori (Matteo 9:10-11; Luca 7:34, 37, 39; 15:1), entrambe le prospettive presumono che il Signore mangiasse con dei non credenti. Tuttavia, ciò non viene esplicitato nel testo. Il termine è invece utilizzato principalmente per descrivere lo stile di vita di queste persone. I pubblicani, ad esempio, erano considerati socialmente impuri perché lavoravano con i romani. Tuttavia, questo non esclude la possibilità che alcuni di quelli definiti come peccatori credessero in Gesù per avere il dono della vita eterna. Quando gli autori dei Vangeli usavano il termine così come inteso dai farisei, la parola peccatore non era un modo per identificare un non credente. Era invece un modo per identificare lo status della persona all’interno comunità, come ebreo moralmente buono o ebreo socialmente impuro il quale era, di conseguenza, spesso escluso dal culto nel tempio.
È interessante notare come anche il Signore venga definito peccatore dai farisei durante il processo al cieco in Giovanni 9:
Perciò alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non è da Dio perché non osserva il sabato». Ma altri dicevano: «Come può un uomo peccatore compiere tali segni?» E vi era disaccordo tra di loro (Giovanni 9:16).
Notate che la definizione di peccatore dei farisei è «quest’uomo […] non osserva il sabato». Era un segno dello stile di vita, non uno status spirituale.
Il termine peccatore è usato anche nelle epistole quando ci si rivolge ai credenti ribelli. Ad esempio, in Giacomo 4:7-8, il fratello del Signore ammonisce il suo pubblico dicendo:
7 Sottomettetevi dunque a Dio; ma resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi. 8 Avvicinatevi a Dio, ed egli si avvicinerà a voi. Pulite le vostre mani, o peccatori; e purificate i vostri cuori, o doppi d’animo! (enfasi aggiunta)
Giacomo sta scrivendo ai credenti (1:2, 16-18), eppure si riferisce a loro come peccatori. Ha appena finito di parlare dell’importanza dell’umiltà e ora li incoraggia a ravvedersi e a sottomettersi al Signore. Coloro che non camminano costantemente con il Salvatore vengono incoraggiati ad avvicinarsi a Lui e a purificare le loro mani. Ancora una volta, la questione non è la loro condizione eterna, ma lo stile di vita. Ciò viene chiarito alla fine della lettera di Giacomo, quando il fratellastro del Signore afferma:
19 Fratelli miei, se qualcuno tra di voi si svia dalla verità e uno lo riconduce indietro, 20 costui sappia che chi avrà riportato indietro un peccatore dall’errore della sua via salverà l’anima del peccatore dalla morte e coprirà una gran quantità di peccati (enfasi aggiunta).
Ancora una volta, Giacomo identifica i suoi lettori come fratelli e fa l’esempio di qualcuno che si allontana dai ranghi. In altre parole, quando un credente pecca, la chiesa dovrebbe cercare di riportarlo all’ovile. Il credente che riesce a riportare un fratello peccatore al Signore lo ha salvato dalla morte fisica. Solo Cristo può salvare l’anima di qualcuno dallo stagno di fuoco. In questo contesto, l’anima (psyche) si riferisce alla vita della persona.
Zane Hodges commenta:
«[…] chi avrà riportato indietro un peccatore dall’errore della sua via (hodou, “strada”), in realtà lo starà allontanando da un sentiero peccaminoso che può condurlo alla morte fisica (cfr. 1:15). Pertanto, gli sforzi del cristiano per riportare un suo fratello sulla via dell’obbedienza hanno uno scopo salvifico» (Lettera di Giacomo: un breve commentario, p. 41).
Hodges sottolinea, giustamente, che questo versetto riguarda il recupero di un fratello in Cristo, non di un non credente, e riconosce anche l’enfasi posta sull’obbedienza costante. In breve, un credente può cadere nel peccato, contrariamente a quanto insegna il calvinismo. Ciò dimostra anche che in gioco non c’è il destino eterno, ma le conseguenze temporanee dovute alla disobbedienza, contrariamente a quanto insegna invece l’arminianesimo.
Naturalmente, coloro che hanno creduto in Gesù per avere la vita eterna possono essere giustamente chiamati santi. Tuttavia, poiché anche l’apostolo Paolo si identificò come peccatore verso la fine della sua vita (1 Ti 1:15), anche i cristiani di oggi dovrebbero essere disposti ad ammettere che siamo tutti santi peccatori.
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Kathryn ha conseguito un master in studi cristiani presso il Luther Rice Seminary. Coordina i nostri viaggi missionari a breve termine, occupandosi anche in parte dell’insegnamento, tiene conferenze e studi per le donne e collabora regolarmente alla nostra rivista e ai nostri blog. Insieme a suo marito Dewey vive a Columbia, SC.

